La fanciulla vestita di rosa

immagine Duy Huynh

Una donna durante i mesi della gravidanza volle tenere con sé amorevolmente, nel respiro dell’erba, una pianta di rosa.

Pioveva sui campi una lieve luce stellare al momento del parto.

La donna, al camminare lento delle ombre silenziose, mise al mondo una bambina che, al primo vagito, germogliò e divenne un fiore bellissimo.

La madre la curò, la interrò, la circondò di tanto amore.

(immagine Mary Baxter St Clair)

 

Un bel giorno un ragazzo di famiglia agiata mirò il vaso e chiese a costei di venderlo, ella fu costretta a cedere, vinta dalle ristrettezze economiche in cui viveva.

Una mattina , mentre il giovane innaffiava la pianta, apparve tra i brevi petali il viso paffuto e vago di una fanciulla che esordì dicendo
“sono vestita di fiore, ho bisogno delle tue cure, d’acqua e tanta luce” .

Intanto la madre del giovane stava organizzando una sontuosa festa di fidanzamento ma questi partì all’improvviso per alcuni giorni.
Prima affidò alla madre incauta il compito di aver cura della rosa, non permettendo a nessuno di entrare in camera né di suonare il campanello, posto accanto al vaso.
Accadde però che la promessa sposa del giovane si introducesse furtiva nella stanza, prendendo a scampanellare.
Comparve la fanciulla di rosa spaventata. A quella vista la fidanzata scaraventò la pianta dalla finestra.

Dopo cinque giorni il giovane fece ritorno e suonò per ben tre volte il campanello, comparve il piccolo fiore dolorante e contuso.
Disse che non sarebbe più comparsa se quella fidanzata non fosse stata per sempre congedata.
Così  il ragazzo andò da sua madre comunicandole di aver scelto la sua sposa.
Giunse il giorno delle nozze e mentre tutti si domandavano chi fosse la prescelta, ecco entrare nella stanza un fascio di luce seguito dalla fanciulla in fiore.

(foto daniela contini)

Tra gli invitati vi era anche la mamma della fanciulla che, commossa, la abbracciò implorando il suo perdono per averla venduta in cambio del pane.
La ragazza ricambiò l’abbraccio poiché l’amore della madre l’aveva resa rara e bella come un fiore.

 

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tra alberi maestri

Isabella Mollard

ti scriverò in ombra

la chiamerò luce

sarà bianca di inizio

 

..e se anche le parole che bisbigliano all’orecchio fossero riflessi

di occhi che stanno là

avvolti in corpi di luce finissima

ancora mi chiederei dove stanno di casa

per abitare il tabernacolo che sfiora ogni fiore

e lo accende

 

 

 

A PIEDI NUDI un racconto di Angela Greco

fotografia di Romina Dughero

Era la fine di un agosto eppure nevicava e si sentiva quel lieve dondolio capace di riportarti alla culla…

Dalla finestra riuscivo a vedere le grandi macchine che pettinavano per la prossima stagione i campi mietuti; era un piacere sentire il profumo che emanava la terra smossa anche dal tempo. Abitavo da sempre in quel luogo circoscritto; anzi, quella era la terra appartenuta ai miei genitori e ai miei nonni e che un giorno sarebbe stata dei miei figli. Forse.

Non perché io non avessi un amore con cui concepirli, anzi, ma piuttosto perché di quella terra, di quel lembo di sud, loro non condividevano nulla, se non il luogo di nascita. Erano al nord a studiare e a vivere, come spesso ripetevano nelle loro puntuali telefonate, lamentandosi che qui non accadeva mai nulla, che ogni cosa sembrava ferma al suo immobile posto. In fondo, mi faceva piacere ascoltare quelle ribellioni che un tempo erano state anche le mie. Poi, non so il motivo che mi aveva affascinata, ero rimasta qui – anche io – a vivere o a morire, come nelle giornate d’agosto nelle quali manca l’aria e si invoca il cielo perché smetta di lasciar presagire, neanche con troppa fantasia, l’inferno.

Spesso vado in quella cantina; non è quella di casa, ma della casa di mio padre, affianco alla mia. Quando andavo a trovarlo per aiutarlo con le faccende domestiche – era un uomo ancora in gamba anche in assenza della mamma – spesso mi chiedeva di portare vecchie cose giù, al piano inferiore. Lo chiedeva a me, perché lui non poteva fare le scale a causa di fastidiosi capogiri che spesso lo assalivano senza preavviso.

Ogni volta era come far parte di un altro mondo e mi piaceva starmene lì ad aprire vecchie scatole e ad immaginare giorni passati; lo stomaco, proprio come le vecchie caldaie che usavamo per la salsa, brontolava a quel repentino cambio d’aria, ma ogni volta ero contenta che si ripetesse sempre la stessa scena, che mi faceva sentire al riparo e protetta.. Lì, tra polverose assenze, loro mi aspettano ancora, silenziose e serene nei loro sorrisi vitrei, i loro abiti e i loro pizzi; da bambina ogni volta mi invitavano ai loro giochi, ma io preferivo restare a guardare il cielo, sempre così distante e che indossava il suo abito scuro, dalla piccola finestra che dava luce alla cantina fino a quando non venivano a chiamarmi.

Oggi, a casa spesso mi soffermo e ripenso a quello spazio che da piccola mi sembrava non avere confini eppure un solo fiammifero bastava ad illuminarlo: rido di quella piccola selvatica donna acerba che si rifugiava allora in cantina e oggi tra le parole e ancora ricordo il vento di tramontana che si insinuava in spifferi che non ho mai capito da dove provenissero e mi faceva sussultare con le sue gelide sferzate da far sbattere finestre ed occhi.

Camminavo a piedi nudi per sentire la terra di mio padre e poi i mattoni della nostra casa e ancora gli assi scricchiolanti del piano inferiore e, forse, il freddo contatto con la stessa vita, chissà.. Adesso, quando vedo camminare i miei figli senza scarpe ricordo loro quelle che sarebbero state le parole dei nonni: “Attento che potresti farti male!” e stavolta sono loro a ridere di come il tempo mi abbia cambiata e mi ricordano che proprio a me piaceva fuggire anche da quei rimproveri e senza ubbidire. Quando scendo, mi fermo ancora a guardare un vecchio ombrello, che non ho mai rimosso, rivolto verso il soffitto, al di sotto di una specie di sopraelevata – dove un tempo si riponevano le derrate alimentari –:da lì io mi divertivo a lasciar cadere i petali dei fiori di campo che raccoglievo con mia madre non solo per la processione ed immaginavo fossero le parole di un racconto – del mio racconto – che si raccoglievano per poi farsi leggere nei libri, ma mi incuriosiva sempre il colore pallido pallido di quei fiori.

Era bello immaginare che tutto si potesse contenere in uno spazio ben definito e sperare che anche io potessi vivere al di fuori di certi confini, ma se alzo lo sguardo vedo il sorriso del bimbo della casa accanto che agita la sfera con la neve….

 

tra-me e fughe

fotografia di Cristina Chiappani

In piedi davanti alla finestra della cucina guarda fuori.

Vede la dirimpettaia ritirare la biancheria che ha steso ad asciugare di prima mattina.

Con questo bel vento è bella e asciutta, sembra significare l’ espressione beata della signora Michelina, svelta a sottrarla ai mulinelli del vento.

Poi, di colpo,  distoglie lo sguardo da quella scena domestica e con gesti consumati si dirige verso la credenza del soggiorno.

Fruga tra vecchie bollette, pagate, tra pagelle e gualciti biglietti augurali e poi lì davanti un mucchio di fotografie, stanno così  alla rinfusa, in bianco e nero e a colori, recano scritte sul retro le date.

L’ingenuità dei numeri sbirciò tra le lettere aperte

e vespe di a rotonde

rotolarono fuori dal nido

Ne pesca qualcuna a caso.

In questa eccola il giorno della Prima Comunione sotto il braccio del fratello. In testa una strana coroncina di fiori semplici. Che buffa !! quasi una bomboniera.

Le viene da ridere e pensa come sono cambiati i costumi.

Poi, rimescolando tra quelle carte un poco sbiadite, si imbatte in una serie di foto tessera dei figli.

La memoria riporta indietro quando erano tutti a casa, una famiglia sempre unita.

Ho fatto come mi hai insegnato
disciolte le ultime stelle
– le mie violette preferite –
nella stanza che diventa cielo
il mare (è) sigillo di memoria
intatta l’ ultima sillaba d’amore.

Eccoli al mare quando  si recavano fuori dalla regione per abitare una grande casa in affitto.

Quanti ricordi e vari profumi. Latte solare per la sua pelle bianca e soggetta all’ eritema solare, libri a non finire per la figlia adolescente affamata di saggezza, macchinine rotte e bulloni per il piccolo meccanico, caro dolce vivacissimo figlio, poche carezze ma tanto amore per il loquace marito.

Poi l’ immagine di sua madre, seduta sul moscone, mentre il sole già sparisce.

Ripetenze di piccoli cerchi
gesso colorato su sbriciolato asfalto
asciugati giochi bambini.
Di notte la casa non dava respiro
mi addormentavo su cemento

quasi trasparente di balcone

il pianto di mare lontano

sospirava lusinghe

.

madre scoperchiami gli occhi.

fotografia di Isabella Faro

Pensa a lei e forse le vengono le lacrime. Poi sente nostalgia e malinconia nell’ accarezzare l’ immagine di suo padre. Quel padre non le permise di fare gli studi universitari ma la chiamava sempre con affetto e generosità MIMI’.

Sono voci di mare in tempesta

a indolenzire giorni di dubbi

e sale trattenuto tra sussurri

ho mani imperfette

a stirare notti gualcite

.

in un cassetto fresco l’abito d’erba.

I pensieri ora corrono a briglie sciolte, affiorano, si intrecciano, si fonde tutto.

Ad un tratto il citofono la riporta alla realtà, una voce le ricorda di dover fare la spesa per l’ indomani. E’ il marito, sempre a lei accanto, unica presenza fissa nella sua ancora giovane vita.

Ma questa volta la spesa non è quella solita.

Si avvicina il Natale e c’è da pensare alla Vigilia, bisogna comprare le mandorle e la cioccolata per fare i dolci buoni che piacciono a tutti, a tutta la famiglia che di nuovo- magicamente- si riunisce.

(7 luglio 2006)

un cerchio e il mare

“Pennellate di vento”: fotografia di Isabella Faro

il fiato corto per le corse, mulinelli di sabbia e il sole che scotta

la musica all’orecchio racconta…

 

Andrò

dove la luna è sopra la rupe

sillabe di parole sfilano al vento

acqua si fonderà ad acqua

più sottile la linea della vita

– un cordoncino –

le chiederò di portarmi dove crescono i sogni

.

la navigazione è un disegno fatto sulla fronte da tua madre

Brucio..fuggo dal so(g)no

fotografia Romina Dughero

Sono muti e insieme raggianti gli spicchi di grano         

a sfaldare un cielo ri-arso

poco vento muove le nuvole d’acqua

questo campo ha cambiato nome

ditemi come si chiama

ora

invocherò il suo silenzio

.

era l’infanzia la goccia di miele dall’impastato contorno

se solo sporgessi una mano

potrei galleggiare

nuda

bianca di parto