Immagine di Daria Petrilli
. «Bisogna trovare il proprio sogno perché la strada diventi facile. Ma non esiste un sogno perfetto. Ogni sogno cede il posto ad un sogno nuovo. E non bisogna volerne trattenere alcuno». Hermann Hesse
La raccolta di Elina Miticocchio, Per filo e per segno, edita dalla casa editrice Terra d’ulivi, si apre con questa frase in esergo. Qui l’invisibile prende posto affianco al corpo di chi scrive e di chi legge, rendendo possibile il miracolo di un rispecchiamento sempre nuovo, perché la poesia lambisce aree di vissuto e di non vissuto, di conscio e d’inconscio, un patrimonio di esistenza cui la scrittura poetica attinge e in cui cammina, aprendo una sua strada. Si assiste, srotolando il filo delle parole e dei silenzi non occupati dalle parole, al miracolo di un paesaggio in cui la visione ad intra e ad extra sembra combaciare: “Nella bocca una rinascenza/ritorna il cuore alle stanze del cielo/all’infinito corpo che in cerchio navighiamo”. E poco più avanti “ al becco del passero tra le foglie quel biancore/ appreso alle ali (mi)è benedetto/riscrive le radici del mio albero/ e del mio tutto tempo resto ascolto”. Se la poesia è il precipitato del nostro vissuto più profondo e segreto, essa è forse anche il luogo privilegiato per dare asilo ai nostri sogni ondivaghi, ai fantasmi metamorfici dei nostri desideri, anche a quelli che non si realizzeranno mai. L’autrice sembra distillare in calma olimpica i passi, i salti, i respiri, di uno stato di meraviglia che nel contempo è stazionamento, accettazione di una sorta di stasi, ed è transito e conquista di viaggio, un affacciarsi, come se la ‘casa’ da cui si scrive e in cui si vive fosse nave, come se la finestra sul mondo fosse collocata in una sorta di terzo occhio che vede ciò che altri non vedono. Un gioco di svelamento e di rinascenza, di quaderni non scritti, di pensieri e di emozioni, inondano uno spazio bianco e azzurro, come un cielo che si fa mare e viceversa, come una parete, fissando la quale, possiamo toccare con le mani le crepe, la materia, distinguere i colori. Elina invita ad entrare‘in punta di piedi’ nella sua narrazione. E si può rimanere ‘fuori’ per pochi istanti perché conseguenza naturale della lettura della sua scrittura è esserne conquistati. Vi regna, infatti, un’ospitalità naturale, del procedere come per cerchi concentrici, o per aperture di porte e finestre sul mondo che l’autrice vuol farci intravedere. In un clima di evocazione lenta, suadente, in un procedere tra fatica e sorriso, si percorrono spazi che sono passato-presente-futuro di un continuum spazio-temporale, in cui la vicenda dell’esistenza si dipana ordinatamente, facendosi memoria e consapevolezza. La sensazione è d’immergersi in un bagno di acque sacre, come se a guidare fosse un flusso di coscienza in cui il non detto- o non dicibile – sembra prendersi con garbo la sua rivincita su ogni cosa profana che si può vedere, toccare, apprendere. Da un regno di oggetti minimi si dipana e si stagliano ricordi, evocazioni, attese, incontri rituali, anche con le ombre: “Ho avuto case ad abitarmi/nessuna cosa è perduta. Le tue stanze senza porte avevano oblò/non troppi mi sarebbe parsa una prigione/così l’ho scambiata per una nave./Anche di notte faccio ritorno/senza parola approdo appiglio/sosto e attendo/spengo la luce tesso illusioni/filo il miracolo d’onda immobile”. Qui la poesia di Elina Miticocchio sembra materializzare una vocazione e un’invocazione, un vivere il ‘qui ed ora’ e un procedere dentro una narrazione segreta, palpitante, composta. Di ciò sono segni il ritmo, lento e cadenzato, e le scelte lessicali che rinunciano a frequenti congiunzioni e che all’interno della silloge poetica preferiscono parole ricorrenti (come mare o cielo) e accedono a figurazioni familiari, casalinghe, in realtà strumentazione di un viaggio da cosmonauta, da navigatrice di un cosmo che sembra concluso, (gli affetti, la casa, le cose), ma in realtà è inconcluso, in itinere, in movimento. Il filo e il segno di perimetri brevissimi diventano improvvisi slanci e apertura a orizzonti a perdita d’occhio, come a riprendere forze e fiato. E quel titolo, Perfiloepersegno, dice bene questo procedere, simile ad una tessitura antica, ad un mosaico di luce ed ombra. Un habitat in parte immaginario che si lascia attraversare da fasci di luce nelle ore diverse del giorno fino alla notte fonda, che si lascia guardare dalla luce del sole e guarda con gli occhi della luna, con una malinconia composta, mai arresa, in una sorta di tenacia da cui traspare una sensibilità quasi orientale. Un percorso che sembra, nel gioco delle diverse voci, disponibile ad accogliere sempre la sana follia del vivere poeticamente, di accogliere e includere ogni piccolo accadimento come fatto non scontato, microcosmo nel macrocosmo, perché iscritto nella natura e nella cultura che riusciamo a incarnare. Una quotidianità scandita da movimenti brevi, da gesti feriali, testimone a sua volta di altre esistenze femminili, visitatrici di una stanza solitaria: “Sbircia il tempo/da una cornice tra legni intarsiati saltella/lo sguardo spia/ piccole donne a guardarsi – non è lo specchio – a riflettere/sola/è una finestra nel ricordo-“. Un tempo feriale capace di proiezioni visionarie, che si fa viaggio e avventura infinita, che assume l’ampiezza stordente del cielo e del mare, bellezza e metafora di bellezza, richiamo alla contemplazione e all’azione. Un tempo che è anche pensatoio, (incubatoio per usare una parola di Elina) che accoglie l’approdo e il naufragio delle ombre, con le consegne di una resilienza quasi atavica che trova nell’esercizio della scrittura la possibilità di abitare la continua transizione della vita. La poesia di Per filo e per segno come una specie di diario di bordo, registra lo scorrere di un tempo-spazio interiore, assumendo consapevolmente la complessità del reale, come un provarsi continuo alla fiamma dell’autenticità e del coraggio, accogliendo per intero la vita così com’è: “La parola spesa /presa all’amo divenne/guerra e sole/ e non valse una cornice/per disegnare i volti/ stretti schiacciati nella valigia/ di cartone le scritture esuli/naufraghe in perenne ascolto di voci/affogate in mare/un perimetro brevissimo di carta bagnata”. Una poesia che come il movimento di un pendolo sembra scandire minuti e momenti di asfissia e vertigine, di felicità e di dolore. Una disciplina quotidiana, quasi lambicco di pensiero ed emozione, che si accompagna e si organizza in “primi fili primi segni”, “ tra fogli-e-frammenti i nodi dei fili”, ecc., cioè che si dipana, si scioglie, si staglia “in stati del bianco in confini di filo”, per occupare postazioni di approdo e di abbrivio. L’autrice che sembra rassicurare il lettore (o se stessa, poiché anche la scrittura, se onesta, rassicura), rituffandosi continuamente in una “radiosa solitudine tangibile” sembra avere nel dna poetico la saggezza di certa filosofia greca, di matrice Epicurea o Eraclitea, poiché sembra dire ‘vivi nascostamente’ e nel contempo ‘tutto scorre’. Immagini che sembrano pennellate di acquerello, ora nitide, ora sfocate, a indicare forse il viaggio mai scontato che si svolge nella concreta piccola vicenda umana, nel quotidiano, che è anche scenario di prospettive e tensioni. Una vicenda che è viaggio nel sogno, con tutta la sua bellezza, i pericoli di una destinazione incerta, in un tempo spazio che non è solo cronologico, a cui apparteniamo e che trascorrendo ci cambia, ci riporta indietro, avanti, restituendoci ombre, sguardi, presagi, rivelazioni. Ma sulle ombre sembra prevalga sempre la luce. Con questa fede l’autrice cita tra le tante autorevoli voci quella del poeta francese René Char,: “ Non possiamo vivere che nel frammezzo, esattamente /sulla linea ermetica di condivisioni dell’ombra e della luce./ Ma siamo irresistibilmente gettati in avanti.”