Vi dico che l’ho visto

Spring di Astrid Astra Indricane

Astrid Astra Indricane

L’albero dei sogni è
Percorso di rughe, di solchi
Di parole lontane
Ha nelle vene il sonno della notte
Ai timpani trattiene l’aria e il sole
Come stelle cucite dopo il fuoco dell’estate
Canta
La sua musica desta il mattino

.

tratto da Quaderni dell’Orsa. Sotto il più largo cielo del mondo. Trenta poeti dauni a cura di Canio Mancuso e Raffaele Niro, Besa 2016

Pubblicità

ad immagine

disegno di Simona Visconti

Simona Visconti

Mi alzo in volo
sorretta dal vento

all’ombra delle mie sillabe
racconto semi di pensiero

sento un nome pronunciare
– stella oppure sogno

Mi sono culla

 

Canto del cercatore di Sabrina Giarratana

Sonia MariaLuce Possentini

Canto del cercatore

Il cercatore cerca un tesoro
Che non è certo fatto di oro
Il cercatore ha un grande potere
Ma non lo riesce sempre a vedere
Il cercatore viaggia nel tempo
Per chi lo aspetta il viaggio è lento
E mentre viaggia trova la vita
Trova il tesoro tra le sue dita.

 
Canto del cercatore, dal libro “Canti dell’attesa”, Il leone verde ed. 2015. Poesie di Sabrina Giarratana e illustrazioni di Sonia MariaLuce Possentini

Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43 – Anna Foa

MASTRO ECONOMICA 080304.qxp

“Pioveva su Roma, una fitta pioggia autunnale che non faceva molto rumore e copriva di un velo il buio della notte. Prima dell’alba i soldati tedeschi avevano sparato diffusamente intorno alle vie strette del vecchio ghetto: sparavano in aria, nel deserto del coprifuoco, senza scopo apparente, e questo rendeva ancor più inquietante il fragore dei loro spari. Qualcuno si era alzato ancor prima dell’alba, nella Casa e nelle case vicine. Era annunciato un rifornimento di sigarette, quella mattina, ed era meglio mettersi in coda presto dal tabaccaio dell’Isola Tiberina, là accanto. Erano tanti a fumare, allora, e le sigarette erano un bene raro e rassicurante”.

In questo libro, denso nella sua brevità, una casa del ghetto, situata al n° 13 di Via Portico d’Ottavia, diventa metafora della grande e incolmabile tragedia della deportazione.
Questa microstoria, come la definisce la stessa autrice, rivela la profonda luce e l’eco palpabile che resta viva nel lettore, al termine del suo percorso di lettura.
Un libro che non si dimentica facilmente.
Ci si interroga, ci si sofferma su ogni punto del racconto come se quella casa apra ai nostri occhi, oggi, le sue stanze.
Le stanze della casa, abitate da volti e persone che hanno nomi e cognomi, sono illuminate e “penetrate” con occhio vigile e cuore vigile dalla storica Anna Foa.
Dentro le piccole storie risiedono le emozioni che hanno tessuto i momenti di vita di tanti, identificati, chiamati con il loro nome, cognome, soprannome.
Sembra che i loro pensieri possano legarsi ai nostri attuali, poiché nel racconto così particolareggiato, emergono i loro volti, le paure, le convinzioni che li hanno indotti spesso a non scappare, a non abbandonare la casa.
Alla nitidezza della narrazione si contrappone la casualità dell’ evento, della deportazione.
Una sottolineatura importante è data dal fatto che le condanne, dunque le sentenze emesse durante i processi del dopoguerra per collaborazionismo e sequestro di beni ebraici, furono alquanto miti.
A Pag. 107 leggiamo:
“Attraverso questi e analoghi giudizi, in sé profondamente iniqui, tuttavia, si guardava anche ad un futuro di riconciliazione e si pensava che solo senza vendette questo futuro sarebbe stato possibile”.

Il saggio offre con puntualità un volto ai nomi e ai volti. Il fine è ben chiaro e precisamente indicato dalla Foa. Rivolgere gli occhi e la mente, la propria contemporaneità, a persone cui la vita brutalmente fu tolta, quasi nella loro inconsapevolezza.
Desidero manifestare la sensazione che ha mosso i miei passi di lettrice che spesso è tornata a rileggere, per non perdere il filo-memoria, nessun volto-nome.
Mi è parso di vedere la casa, i suoi gradini, il cortile, le logge, le porte “animarsi” di vita.
Quasi una fotografia che ho scattato mentalmente.
Una fotografia cucita di nomi e cognomi, di piccole vite terminate, di alcune vite salvate.
Feritoie di memoria, feritoie di profondità, di restituzione, di riflessione.
Un libro pregno di nitore, un atto d’amore direi per la storia che continua a tessere fili rossi di memoria, segni del tempo nel tempo.
Tempo che non si archivia ma da consegnare e tradurre, condurre, quasi per mano, a giovani lettori affinché ci sia consapevolezza del vero senso, senza alcuna retorica, della memoria, un passaggio in un “guscio” da serbare con cura.

Nella memoria

opera di Samantha Torri – La primavera è questione di avercela dentro…

Samantha Torri

A volte accade che il cielo conservi segreti impressi sul suo volto.

Quella mattina calda e afosa ero uscita ben presto per recarmi a Villa Carolina, un piccolo spazio verde, riparato dal sole e dal rumore cittadino.

Mi sentivo stanca, il mio passo lo era, sembrava che ogni gesto, per piccolo che fosse, avesse un peso enorme.

Arrivai lentamente alla panchina all’ombra di un albero con poco fogliame.

Mi lasciai scivolare su quel ferro caldo e cominciai a perdere i miei pensieri, legandoli come funi ai bianchi contorni delle nuvole, fumanti il mio avvenire.

Ad un tratto mi accorsi della presenza che mi stava accanto.

Emersi di colpo dai miei voli, una signora mi stava chiedendo qualcosa.

Indossava una camicetta a fiori ed una gonna arancione, aveva modi gentili ed un aspetto curato.

Si presentò e allegra mi mostrò una borsa di stoffa, di sua completa creazione.

Era una cosa talmente piccola da non poter contenere neppure un portamonete, aveva all’interno una breve cerniera da cui estrasse cinque diversi bottoni.

Erano bottoni preziosi, riconobbi il materiale di cui erano fatti e anche il loro elevato costo.

Risplendevano colorati come gioielli preziosi e di vetro, avevano diverse dimensioni.

-Mi chiamo Maria e questo è il mio hobby o meglio uno dei tanti esordì sorridendo.

Seguì la mia breve presentazione, dissi subito che ero in convalescenza, mi parve d’essermi liberata di un primo peso. Poi aggiunsi che quel clima di pianura, troppo umido, non giovava al mio stato,mi fiaccava le gambe e anche lo spirito. Maria annuiva e mi accorgevo che era dispiaciuta, non si perse d’animo però anzi mi propose di lavorare con lei, così il tempo sarebbe passato alla svelta e forse avrei deposto per un attimo quel pesante libro che sembrava poi non interessarmi.

Il giorno seguente ci ritrovammo sedute alla stessa panchina. Maria svelta estrasse dalla sua sacca pezzi di seta, lino, cotone, scampoli di tessuti di vario peso e colore e me li consegnò, dicendo di inventare qualcosa.

-Su due piedi non mi viene proprio niente le risposi seccata, incrociando il suo sguardo incuriosito.

Intanto Maria continuava a cucire la borsetta del giorno prima che aveva chiamato Pilù. Allora presi due pezzetti di lino e ne feci una nuvola, feci una pozza fresca d’acqua d’estate con la seta azzurra, poi ritagliai un sole di cotone e un tramonto di jeans. Potevano essere delle applicazioni per borse più grandi, magari quelle un po’ sformate dal peso della spesa. Quella giocosa attività durò un mese, poi ripresi il mio lavoro d’ufficio.

In quei giorni, per sempre candidi nella memoria, mi smarrii ogni giorno ad inseguire nuove nuvole e altri cieli, intanto le dita si facevano più svelte, di nuovo sicure tenevano i fili ricuciti della mia vita. La mia terra era un giardino che io fiorivo, cucivo, trasformavo appassionata. I silenzi erano parole che cercavano radici profonde, appigli concreti alla tanta voglia di vivere.

Fili visibili ora scivolavano precisi tra le nuvole del mio Essere.

breve

Immagine di Cinzia Marotta

Cinzia Marotta

quando l’anima si svela
e chiama i colori alla semplicità
della parola cielo

quando l’anima attende
tende l’orecchio al silenzio

traccia un granaio
si fa stanza di gigli

e di voce e di voci
la terra piano sussurra